I pedanti fiorentini, verso i quali io veniva scendendo a gran passi nell'avvicinarmi a Pistoia, mi prestavano un ricco soggetto per esercitarmi un pochino in quell'arte novella. Mi trattenni alcuni giorni in Firenze, e visitai alcuni di essi, mascheratomi da agnello, per cavarne o lumi, o risate. Ma essendo quasi impossibile il primo lucro, ne ritrassi in copia il secondo. Modestamente quei barbassori mi lasciarono, anzi mi fecero chiaramente intendere: che se io prima di stampare avessi fatto correggere il mio manoscritto da loro, avrei scritto bene. Ed altre sí fatte mal confettate impertinenze mi dissero. M'informai pazientemente, se circa alla purità ed analogia delle parole, e se circa alla sacrosanta grammatica, io avessi veramente solecizzato, o barbarizzato, o smetrizzato. Ed in questo pure, non sapendo essi pienamente l'arte loro, non mi seppero additare niuna di queste tre macchie nel mio stampato, individuandone il luogo; abbenché pur vi fossero qualche sgrammaticature; ma essi non le conoscevano. Si appagarono dunque di appormi delle parole, dissero essi, antiquate; e dei modi insoliti, troppo brevi, ed oscuri, e duri all'orecchio. Arricchito io in tal guisa di sí peregrine notizie, addottrinato e illuminato nell'arte tragica da sí cospicui maestri, me ne ritornai a Siena. Quivi mi determinai, sí per occuparmi sforzatamente, che per divagarmi dai miei dolorosi pensieri, di proseguirvi sotto i miei occhi la stampa delle tragedie. Nel riferire io poi all'amico le notizie ed i lumi ch'io era andato ricavando dai nostri diversi oracoli italiani, e massimamente dai fiorentini e pisani, noi gustammo un pocolino di commedia, prima di accingerci a far di nuovo rider coloro a spese delle nostre ulteriori tragedie.
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