Né una tale improba fatica mi debilitò come avrei creduto e temuto, l'intelletto. Che anzi ella mi fece per cosí dire, risorgere dal letargo di tanti anni precedenti. In quell'anno '97, portai le satire al numero di diciassette come sono. Feci una nuova rassegna delle molte e troppe rime, che fatte ricopiare limai. E finalmente, cominciatomi ad invaghire del greco quanto piú mi pareva d'andarlo intendicchiando, cominciai anche a tradurre; prima l'Alceste d'Euripide, poi il Filottete di Sofocle, poi i Persiani di Eschilo, ed in ultimo per avere, o dare un saggio di tutti, le Rane di Aristofane. Né trascurai il latino, perché del greco, che anzi in quell'anno stesso '97 lessi e studiai Lucrezio e Plauto, e lessi il Terenzio, il quale per una bizzarra combinazione io mi trovava aver tradotto tutte le sei commedie a minuto, senza però averne mai letta una intera. Onde se sarà poi vero ch'io l'abbia tradotto, potrò barzellettare col vero, dicendo d'averlo tradotto, prima d'averlo letto, o senza averlo letto.
Imparai anche oltre ciò i metri diversi d'Orazio, spinto dalla vergogna di averlo letto, studiato, e saputo direi a memoria, senza saper nulla de' suoi metri; e cosí parimente presi una sufficiente idea dei metri greci nei cori, e di quei di Pindaro, e d'Anacreonte. Insomma in quell'anno '97, mi raccorcii le orecchie di un buon palmo almeno ciascuna; né altro scopo m'era prefisso da tanta fatica, che di scuriosirmi, disasinirmi, e tormi il tedio dei pensieri dei Galli, cioè disceltizzarmi.
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