CAPITOLO VIGESIMOSESTOFrutto da non aspettarsi dallo studio serotino della lingua greca: io scrivo (spergiuro per l'ultima volta ad Apollo) l'Alceste seconda.
Non aspettando dunque, né desiderando altro frutto che i sopraddetti, ecco, che il buon padre Apollo me ne volle egli spontaneamente pure accordar uno, e non piccolo, per quanto mi pare. Fin dal '96 quando stava leggendo, com'io dissi, le traduzioni letterali, avendo già letto tutto Omero, ed Eschilo, e Sofocle, e cinque tragedie di Euripide, giunto finalmente all'Alceste, di cui non avea avuta mai notizia nessuna, fui sí colpito, e intenerito, e avvampato dai tanti affetti di quel sublime soggetto, che dopo averla ben letta, scrissi su un fogliolino, che serbo, le seguenti parole. "Firenze 18 gennaio 1796. Se io non avessi giurato a me stesso di non piú mai comporre tragedie, la lettura di questa Alceste di Euripide mi ha talmente toccato e infiammato che cosí su due piedi mi accingerei caldo caldo a distendere la sceneggiatura d'una nuova Alceste, in cui mi prevarrei di tutto il buono del greco, accrescendolo se sapessi, e scarterei tutto il risibile che non è poco nel testo. E da prima cosí creerei i personaggi diminuendoli." E vi aggiunsi i nomi dei personaggi quali poi vi ho posto; né piú pensai a quel foglio. E proseguii tutte l'altre di Euripide, di cui non piú che le precedenti, nessuna mi destò quasi che niun affetto. Tornando poi in volta l'Euripide da rileggersi, come praticava di leggere ogni cosa due volte almeno, venuta l'Alceste, stesso effetto, stesso trasporto, stesso desiderio, e nel settembre dell'anno stesso '96 ne stesi la sceneggiatura, coll'intenzione di non farla mai.
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