Dietro a quel mio ritratto, che mandava in dono alla sorella, aveva scritto due versetti di Pindaro. Ricevuto il ritratto, graditolo molto, visitatolo per tutti i lati, e visti da mia sorella que' due scarabocchini greci, fece chiamare l'amico anche suo Caluso, che glie li interpretasse. L'abate conobbe da ciò che io aveva almeno imparato a formare i caratteri; ma pensò bene che non avrei fatta quella boriosa pedanteria e impostura di scrivere un'epigrafe che non intendessi. Onde subito mi scrisse per tacciarmi di dissimulatore, di non gli aver mai parlato di questo mio nuovo studio. Ed io allora replicai con una letterina in lingua greca, che da me solo mi venne raccozzata alla meglio, di cui darò qui sotto il testo e la traduzione(13), e ch'egli non trovò cattiva per uno studente di cinquant'anni, che da un anno e mezzo circa s'era posto alla grammatica; ed accompagnai con la epistoluzza greca, quattro squarci delle mie quattro traduzioni, per saggio degli studi fatti sin a quel punto. Ricevuto cosí da lui un po' di lode, mi confortai a proseguire sempre piú caldamente. E mi posi all'ottimo esercizio, che tanto mi avea insegnato sí il latino che l'italiano, di imparare delle centinaia di versi di piú autori a memoria.
Ma in quello stess'anno '98, mi toccò in sorte di ricevere e scrivere qualche lettera da persona ben diversa in tutto dall'amico Caluso. Era, come dissi, e come ognun sa, invasa la Lombardia dai francesi, fin dal '96, il Piemonte vacillava, una trista tregua sotto nome di pace avea fatta l'imperatore a Campoformio col dittator francese; il papa era traballato, ed occupata e schiavi-democrizzata la sua Roma; tutto d'ogni intorno spirava miseria, indegnazione, ed orrore.
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