Quanto poi ad Omero, leggeva subito nel greco solo ad alta voce, traducendo in latino letteralmente, e non mi arrestando mai, per quanti spropositi potessero venirmi detti, quei sessanta, o ottanta, o al piú piú cento versi che volea studiare in quella mattina. Storpiati cosí quei tanti versi, li leggeva ad alta voce prosodicamente in greco. Poi ne leggeva lo scoliaste greco, poi le note latine del Barnes, Clarch, ed Ernesto; poi pigliando per ultima la traduzione letterale latina stampata, la rileggeva sul greco di mio, occhiando la colonna, per vedere dove, e come, e perché avessi sbagliato nel tradurre da prima. Poi nel mio testo greco solo, se qualche cosa era sfuggita allo scoliaste di dichiararla, la dichiarava io in margine, con altre parole greche equivalenti, al che mi valeva molto di Esichio, dell'Etimologico, e del Favorino. Poi le parole, o modi, o figure straordinarie, in una colonna di carta le annotava a parte, e dichiaravale in greco. Poi leggeva tutto il commento di Eustazio su quei dati versi, che cosí m'erano passati cinquanta volte sotto gli occhi, loro, e tutte le loro interpretazioni, e figure. Parrà questo metodo noioso, e duretto; ma era duretto anch'io, e la cotenna di cinquanta anni ha bisogno di ben altro scarpello per iscolpirvi qualcosa, che non quella di venti.
Sopra Pindaro poi, io aveva già fatto gli anni precedenti uno studio piú ancora di piombo, che i sopradetti. Ho un Pindaretto, di cui non v'è parola, su cui non esista un mio numero aritmetico notatovi sopra, per indicare, coll'un due e tre, fino talvolta anche a quaranta, e piú, qual sia la sede che ogni parola ricostruita al suo senso deve occupare in que' suoi eterni e labirintici periodi.
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