Venuto appena l'estate dell'802 (che l'estate, come le cicale io canto), subito mi posi a verseggiare le stesse commedie, e ciò con lo stesso ardore e furore, con cui già le avea stese e ideate. E quest'anno pure risentii, ma in altra maniera, i funesti effetti del soverchio lavoro, perché, come dissi, tutte queste composizioni erano in ore prese su la passeggiata, o su altro, non volendo mai toccare alle tre ore di studio ebdomadario di svegliata. Sicché quest'anno, dopo averne verseggiate due e mezza, nell'ardor dell'agosto fui assalito dal solito riscaldamento di capo, e piú da un diluvio di fignoli qua e là per tutto il corpo; dei quali mi sarei fatto beffe, se uno, il re di tutti, non mi si fosse venuto ad innestare nel piede manco, fra la noce esterna dello stinco ed il tendine, che mi tenne a letto piú di quindici giorni con dolori spasmodici, e risipola di rimbalzo, che il maggior patimento non l'ho avuto mai a' miei giorni. Bisognò dunque smettere anche quest'anno le commedie, e soffrire in letto. E doppiamente soffersi, perché si combinò in quel settembre, che il caro Caluso che da molti anni ci prometteva una visita in Toscana, poté finalmente capitarci quest'anno, e non ci si poteva trattenere piú di un mesetto, perché ci veniva per ripigliare il suo fratello primogenito, che da circa due anni si era ritirato a Pisa, per isfuggire la schiavitú di Torino celtizzato. Ma in quell'anno una legge di quella solita libertà costringeva tutti i piemontesi a rientrare in gabbia per il dí tanti settembre, a pena al solito di confiscazione, e espulsione dai felicissimi stati di quella incredibil repubblica.
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