E basta: perché non ce n'entra piú; e perché troppo ce n'è entrato fin qui.
APPENDICE DECIMA
CAPITOLO PRIMO
Cetra, che a mormorar soltanto avvezza,
indagasti finor spietatamentei vizi, e n'hai dimostra la laidezza:
tu che in mano ad un vate impertinenteche le publiche risa nulla apprezza,
benché stolta, credesti esser sapiente,
e di che canterai, e con qual fronte?
infra uno stuol sí venerando e augusto?
tu che neppur vedesti il sacro fonte.
O temeraria cetra, e vuoi dar gustocicalando di cose a te mal conte
sacre al gelido Scita e al Libio adusto?
Chi condottier ti fòra all'alta impresa?
Nelle Muse non spera, a te già sordes'armerebbero invan per tua difesa.
Rompi, stritola, o abbrucia le tue cordese da fuoco divin non vieni accesa;
deluderai cosí le Parche ingorde.
Quanti Numi in inferno, o in cielo, o in ondai favolosi Greci un dí crearo,
tutti fòrano vani, ognun si asconda.
Tu, chi invocar non sai; io te l'imparo:
inalza il vol dalla terrena sponda,
scorgi un Nume maggior, e a noi piú caro.
In supremo Fattor dell'orbe interorimira, e poi impallidisci, e trema,
e se tant'osi, a lui richiedi il vero.
Per lui fia in te già l'gnoranza scema,
egli ti additi il murator primiero,
del grand'Ordine infin l'origo estrema.
E se pur ti svelasse un tanto arcano,
avresti tu sí nobili concettie ad inalzare il vol bastante mano?
Ah scusatela sí, fratei diletti,
non ragiona l'insana, oppur deliraquando canta di voi con versi inetti.
Cetra, di già tu m'hai destato all'ira.
Taci, rispetta, credi, e umil t'inchina,
tanto e non piú concede or chi t'inspira.
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