più il nome tuo, poiche serbasti solovirtù, religion, patria, et amici".
In tal guisa il Campanella, pieno di gratitudine, onorava fra Pietro Presterà, "Pietro suo", come poi lo disse nell'opera ricomposta Del Senso delle cose: ma per fra Dionisio il caso era abbastanza diverso. "Senza dubbio fra Dionisio avea motivo di dolersi del Campanella, che già prima nella Dichiarazione, ma poi anche peggio nella confessione in tortura, avea rivelato l'esistenza di un concerto per fare la Calabria repubblica compromettendo lui; ed avendo sostenuto il polledro con tanta fermezza, verosimilmente la sua vanità lo conduceva tanto più a sparlare del Campanella, il quale, fin dal 1° Sonetto, "senza voce, afflitto e lento" ne carezza al maggior segno la vanità:
Cantai l'altrui virtuti, (int. di Maurizio), hor me ne pentoDionigi mio, non havean senno vero" etc.
Umiliato per non essere riuscito, all'opposto di lui, nella prova del polledro, il Campanella spiega la cosa con una finzione poetica, ma anche più curialesca, e infine si rivela disposto a soggiacere a tutto:
In me tanto martìre io non soffersich'in te stava il valor, el senno mio,
e solo al viver tuo fur ben conversi.
S'a te par, io men vado, o frate, a Dio
nè chieggio marmi, nè prose, nè versi,
ma tu vivendo sol viverò anch'io".
Il 2° Sonetto, che risente troppo del gusto triviale del tempo, tornasull'argomento e glorifica fra Dionisio perfino con la testimonianza
degli spiriti di Averno; ma vi si fanno notare i seguenti versi,
Sfogaro mille Spagne e mille Rome,
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