Il Jasolino osservò fra Tommaso e gli parlò, a quanto pare, una sola volta, ma certamente in presenza del Nunzio,
del Vescovo di Caserta e del Vicario napoletano: ne ebbe risposte non a proposito, e lo vide "melancolico" nell'abito del corpo e nel colore; ma dichiarò non potersi giovare di quest'ultimo fatto, non avendo prima conosciuto il Campanella e non sapendo se tale temperamento fosse il suo naturale ovvero "acquistato per il lungo patimento delle carcere et per il gran timore et mestitia" (non si parla di altre specie di sofferenze, e questo mostra che la visita precedè la veglia). Invece notò che "essendo costui persona malitiosa, come si dice, vafer, callidus, et astutus, se hà da dubitare che la sua pazzia sia simulata": ma aggiunse che intorno a ciò non intendeva affermare nulla di certo, e dichiarò che una lunga osservazione poteva farsi da' custodi, e questa avrebbe voluto, conchiudendo "che cossi si potrà chiarire della verità della fitta, che io stimo ò pure vera pazzia". Adunque, tra il sì e il no, il Jasolino stava egli pure per la pazzia simulata, e il giudizio de' periti in questo senso riusciva uniforme.
Più tardi, il 20 luglio, un'altra circostanza venne a provare a' Giudici che la pazzia doveva essere simulata(271). L'aguzzino che aveva dato il tormento della veglia al Campanella e l'aveva anche riportato nelle carceri, un Jacovo Ferraro di Trani, fu esaminato dal Vescovo di Caserta ed interrogato sopra le "parole che si lasciò dire fra Thomaso Campanella dopò che fu sceso dal tormento". Ed egli rispose: "essendo io intervenuto come ministro dela gran Corte dela Vicaria à dare lo tormento dela veglia à frà thomaso Campanella predetto, dove io intervenni continuamente, havendomelo posto in collo per consegnarlo allo carceriero delle carceri di detto Castello novo, et cacciatolo cossì in collo dala camera dove hebbe lo tormento fino alla Sala reale, detto fra thomaso Campanella mi disse da sè le formate ò simili parole, che si pensavano che io era co.
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