Circa il non essergli stata restituita la detta opera, vedremo che egualmente nella lettera del 1607 allo Scioppio il Campanella si dolse di "un Marchese discepolo ingrato" che se la riteneva, e quindi non a Gio. Geronimo, ma al figliuolo di lui che avea dovuto essergli discepolo, il Campanella credevasi in dritto di muover rimprovero; difatti nel Syntagma medesimo si trovano registrate le peripezie sofferte dal libro "essendo morto il Marchese", peripezie le quali con ogni probabilità il Campanella non conosceva ancora allorchè scriveva la lettera allo Scioppio.
Ci fermiamo qui per contenerci nel periodo che ci siamo prefisso. Aggiungiamo solamente che di tempo in tempo il Campanella dovè scrivere ancora altre poesie dopo quelle già menzionate, e fuori ogni dubbio una gran parte di esse, di natura intima, dovè essere eliminata quando si fece la scelta che fu poi pubblicata a cura dell'Adami: intanto, con un poco di buona volontà, si può pervenire a riconoscere qualcuna delle rimaste appartenente al periodo attuale. Ne indichiamo p. es. una che si rivela del tempo in cui l'autore scriveva la Città del Sole; è il Sonetto annoverato tra' Profetali che ha quella chiusa:
Se in fatti di mio e di tuo sia il mondo privonell'util, nel giocondo e nell'onesto,
cangiarsi in Paradiso il veggo, e scrivo:
E il cieco amor in occhiuto e modesto,
l'astuzia ed ignoranza in saper vivo,
e 'n fratellanza l'imperio funesto"(377).
CAP. VI.
ESITI DE' DUE PROCESSI, FINE DELLA PAZZIA E CONCHIUSIONE.
(dal settembre 1602 al novembre 1604 e seg.ti)
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