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      - Si passò quindi a fra Pietro Ponzio, cui fu decretato il rilascio per le cause spettanti al S.to Officio, sempre in esecuzione della lettera di Roma; e il Prezioso gli lesse la sentenza audiente et intelligente. Fra Pietro fu veramente posto in libertà: non abbiamo notizia della data precisa in cui uscì dalle carceri, ma verosimilmente ciò accadde senza molto ritardo, non essendovi empara per lui; possiamo solamente dire con certezza che nell'ordine di pagamento del piccolo sussidio menzionato sopra, alla data del 22 marzo, egli non era più computato tra' frati esistenti in Castello e non figurava di poi nella ricevuta. Lo troveremo in sèguito nel suo convento di Nicastro, poichè ci darà ancora occasione di parlare di lui.
      Nello stesso giorno 8 gennaio, innanzi al Nunzio, al Vescovo di Caserta e al Vicario Graziano, si amministrò la tortura, prima a fra Pietro di Stilo e poi a fra Silvestro di Lauriana(391), tortura moderata, di poco più di mezz'ora, dimandando loro se fossero vere le cose che aveano deposte contro gli altri, e se avessero aderito all'eresie che avevano udite (precisamente come in Roma era stato risoluto). Possiamo dire che l'uno e l'altro si mostrarono quali li abbiamo visti finora in tutto il processo. Fra Pietro di Stilo, lettogli il testo della sua deposizione fatta in Gerace, dichiarò vere le cose che avea deposto avere udite dal Campanella in Calabria, e quanto all'avervi aderito, disse che egli non avea nemmeno capito tutto quello che il Campanella diceva, anche perchè come Vicario del convento non gli riusciva star sempre fermo e poter udire tutto il discorso: incalzato dalle domande, se avesse creduto a ciò che aveva udito intorno a' miracoli, che era manifesta eresia, e se sapesse che un cristiano avea l'obbligo di farne denunzia a' superiori ecclesiastici, disse che non vi aveva mai creduto, che non aveva nemmeno immaginato essere quella un'eresia, che aveva appreso l'obbligo della denunzia solamente dopo di essere stato carcerato (sempre la parte dell'ignorante). Posto allora alla corda, fra le solite grida di dolore confermò ad una ad una le risposte date, ed avendogli i Giudici domandato se volesse scendere per poter dire più comodamente la verità, disse "io non voglio scendere et non sò altro che dire, è la verità è detta". Poi oppresso dall'atrocità del dolore si fece a dire, "scenditimi, scenditimi che dirrò la verità"; ma mentre i Giudici ne davano l'ordine gridò, "non mi scenditi, non mi scenditi, perchè la verità l'hò ditta" (il povero fra Pietro diffidava di sè medesimo, e si sforzava in tutti i modi di non lasciarsi andare a dire cose compromettenti). Infine non potè più resistere e volle scendere, ma disse "per Dio che non hò da dire niente, nè posso dire altro per Dio"; e più volte mantenuto in alto, più volte sceso, dicendo sempre che la verità l'avea detta, con segni di grandi sofferenze, essendo scorsa oltre mezz'ora, fu lasciato definitivamente.


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Fra Tommaso Campanella: la sua congiura i suoi processi e la sua pazzia
Volume Secondo
di Luigi Amabile
pagine 741

   





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