Scorsero non meno di 10 mesi dal detto colloquio, e il 13 agosto 1606 il Campanella si spinse a rivolgersi direttamente al Papa, moltiplicando anche questa volta i reclami e le lettere in più sensi e non trovando requie per molto tempo. Sicuramente tanto ritardo non provenne dall'essersi rassegnato, e lo dimostrano i gridi di dolore che sovente erompono nelle dette lettere; ma bisogna dire che egli non nutriva alcuna speranza di essere ascoltato, e però non si mosse di nuovo se non quando avvenne un fatto tale da tenere in agitazione vivissima l'animo del Papa; fu questo l'interdetto scagliato a Venezia, seguito dalla superba resistenza del Governo Veneto, e dall'abbandono del Papa in una pessima condizione da parte di coloro medesimi che gli aveano offerto aiuto. Allora appunto il Campanella tentò di profittare dell'occasione e scrisse la sua lettera, nella quale comincia col giustificarsi degli stratagemmi usati durante la causa (e certamente del principale tra essi che era stato la pazzia, come risulta dal veder citata l'autorità di S. Geronimo), si appella mostrando la necessità di venir tradotto a Roma e l'impossibilità di consentire che il giudizio della congiura ed anche dell'eresia termini in Napoli, fa un racconto delle cose di Calabria e degli avvenimenti posteriori come può farlo un giudicabile, riconosce commessa da lui la colpevole imprudenza di aver servito alla "revelation presente" ed esservi stato un "voluto, non fatto, eccesso", chiede per giudici il Bellarmino e il Baronio ma non in Napoli, coll'affermare che ha cose grandi, parole di cielo, da dire al Papa e alla Chiesa, ed aggiunge un poscritto in cui dichiara avere avuto nuova delle cose di Venezia, occorrere una guerra spirituale e la chiamata di tutte le persone sante a Roma, per parte sua obbligarsi a mostrare con miracoli stupendi la verità del Vangelo ed allungare le profezie laddove sia necessario.
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