Egli credè pertanto necessario rannodare la sua mossa alle precedenti, dare alla sua lettera l'impronta di un "appello", che secondo lui dovea render nullo il giudizio compiuto, siccome disse tanti anni dopo nella sua Narrazione, e credè anche necessario rifare la storia delle cose di Calabria, spingendosi ad affermazioni che crediamo inutile dimostrare insussistenti dopo tutto ciò che abbiamo visto nel corso della narrazione nostra. Basterà citar quelle, che l'eresia fu trovata da' frati, che il negozio de' turchi fu inventato da lui per non morire, che furono appiccati sul molo uomini per altra causa, che fecero confessare a Maurizio sub verbo regio mille bugie, che tutti morendo si ritrattarono. Ma gioverà notare due cose: l'una, il bisogno che sentì sempre di non essere messo a fascio con fra Dionisio divenuto maomettano, "di cane fatto lupo pe' gridi di mali pastori"; l'altra il nessun desiderio ed anzi il rifiuto di vedere spedita la sua causa in Napoli. Su quest'ultimo punto egli si espresse recisamente: non consentirebbe in Napoli a giudizio alcuno, perchè era odiatissimo, perchè non vi erano aequa jura, perchè avrebbero detto al Nunzio che era finita la causa e lo condannasse senza ascoltarlo (così difatti avrebbe dovuto accadere). Nè si trattenne dallo scrivere: "questi giudici anche ecclesiastici più tosto mi vorrebber trovar nocente che innocente, perchè... non si fidano nè ponno difensarmi la innocenza, se in me la trovano, come Nicodemo non difese Christo; ma sendo colpevole senza briga ponno starsi e gratificarsi con questi Signori", mentre "non hanno alcuna autorità se non di farmi male, perchè son ligati al farmi bene". In somma la sua causa era straordinaria e dovea trattarsi in Roma, annullando, s'intende, ciò che si era fatto sin allora, ed egli volea che si dimandasse la persona sua, anche con l'obbligo di restituirla a Napoli qualora fosse trovata in falso.
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