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      1637, ed essa, a parer nostro, avrebbe dovuto fermare moltissimo l'attenzione de' biografi del filosofo. Parlando degli ergastoli, ne' quali i persecutori, "gl'ingrati padroni", l'aveano tenuto "gratis", il filosofo dice che non avrebbe mai pubblicato le opere in essi composte, "nisi Deus per miraculum longe mirificentius quam astutum facinus Ulyssis, quod de antro Polyphemi fecit ut exiret, me liberasset". Si comprende che il titolo d'"ingrati" dato a' padroni, naturalmente tanto laici quanto ecclesiastici, è consentaneo all'atteggiamento preso dal filosofo dopo la carcerazione e mantenuto per tutto il resto della sua vita; ma in ultima analisi questi padroni rappresentavano per lui Polifemo, e coll'aiuto di Dio egli ne scampò mediante un "astutum facinus longe mirificentius" di quello di Ulisse, vale a dire che astutamente, e in una sfera ben più elevata, egli li ubbriacò, li accecò, e riuscì a salvarsi ponendosi in branco tra le pecore, aggrappato bravamente agli egregi velli del pecorone massimo (storia che non ha bisogno di commenti e che dice anche troppo):
     
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      Una simile proposizione, anche figurata, emessa quando già non c'era più nulla a temere e tanto meno a sperare da tutti i lati, riesce degna di fede incomparabilmente più di tutte le altre emesse in tempi ben diversi: e questo criterio vale senza dubbio per giudicare le cose dette sì dal Campanella che da' suoi più intimi amici circa le cause delle sue sciagure; poichè non mancano neppure proposizioni di qualche suo intimo amico, attestanti piena innocenza quando gravi riguardi imponevano di parlare in tal modo, ed attestanti tentativi di nuovo Regno e di nuova religione quando non c'era da usare riguardi e poteasi dire la verità senza danni.


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Fra Tommaso Campanella: la sua congiura i suoi processi e la sua pazzia
Volume Secondo
di Luigi Amabile
pagine 741

   





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