A queste parole, i brividi della febbre preser l'antico monarca; convulso ammutolì. Poi rosicando il bastone, com'ei solea per soperchio furore, interrotto e minaccioso rispondea: non esser la Sicilia nè sua, nè di Pietro d'Aragona, ma della santa romana Chiesa; ei difendeala, e saprebbe far pentire il temerario occupatore. Queste ed altre superbissime parole, secondo altri cronisti, scrisse a Pietro(331). E intanto per far sembiante di non curare, o per ingannar loro e i Messinesi, lasciò andar alla città gli ambasciadori stessi a profferir tregua d'otto dì. Fu vano, perch'Alaimo non conoscendo i legati, li ributtava; ond'eglino tornavano al campo francese, ed eranvi senza risposta intrattenuti finchè il campo si levò. I Messinesi poi, che non avean creduto a Queralto l'avvenimento del re d'Aragona(332), n'ebber certezza entro pochi dì per Niccolò de' Palizzi messinese e Andrea di Procida, entrambi nobili usciti, mandati dal re in lor soccorso con cinquecento balestrieri delle isole Baleari. Costoro, valicati per tragetti e alpestri sentieri i monti a ridosso alla città, da quella banda non istretta per anco da' nemici, di notte appresentaronsi alla Capperrina; e riconosciuti i condottieri, e con grande allegrezza raccolti, spiegavan su i muri lo stendardo reale d'Aragona(333).
Già fin dal primo arrivo degli ambasciadori, teneano i nemici novello consiglio, a disputare non più dell'assalto o blocco della città, ma della lor propria salvezza. Perciocchè sapendo per sicura spia uscite dal porto di Palermo molte galee sottili armate di Catalani e Siciliani, Arrighin de' Mari, ammiraglio di Carlo, rimostravagli vivamente non potersi difendere; in tre dì sarebbegli addosso il nemico ad affondare e bruciare i trasporti(334). Quant'aspro il caso, apparvero diverse allora le menti.
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