S'innovò insieme la costituzione dello stato. Avean Pietro e Giacomo ristorato le buone leggi normanne, riformato abusi, temperato gravezze; ma Federigo, consigliato o sforzato da' tempi, passò a sviluppare, ben oltre il confine normanno e svevo, i dritti politici della nazione, in guisa che, se non mutaronsi i nomi, si vantaggiò tanto negli ordini pubblici, da restar alla Sicilia premio non indegno del vespro. Nel proemio delle costituzioni, promettea Federigo, e non a ludibrio, di osservar la giustizia e liberalità comandate dall'Onnipotente ai re della terra. La colpa di Giacomo, gl'incerti passi ch'ei medesimo, Federigo, già diede con Bonifazio dopo essersi indettato co' Siciliani, or lo strinsero a sacramentare su la sua fede e 'l terribil giudizio di Dio, che manterrebbe a tutto potere il presente stato della Sicilia; nè cupidigia di nuovo acquisto, nè altra ragione lo spunterebbe dalla difesa; nè farebbesi a domandar dalla romana sede scioglimento da cotali promesse, com'era pessima usanza di quell'età. A guarentigia di ciò, si strinse Federigo d'un altro vincol più duro: che nè con la Chiesa romana, nè con altri potentati, farebbe unquemai lega, pace, guerra, se nol consentisse la nazione. Similmente partì co' rappresentanti della nazione il poter legislativo. Stanziò, che s'adunasse ciascun anno il dì d'Ognissanti generale parlamento de' conti, baroni, e sindichi de' comuni (nè qui si fa menzione di prelati), che insieme col re provvedessero alla cosa pubblica; e il re fosse tenuto, come ogni altro, dalle leggi decretate col parlamento.
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