Intanto a Federigo l'avversità rendeva e prudenza e splendore. Come prima rinvenne a' sensi, vedendosi rapito dalla battaglia, disperatamente chiedea la battaglia e la morte: gridava che mai non tornerebbe vinto in Sicilia; ma cedè tosto a più forti consigli: lottar ancora e regnare. Giunse a Messina, ingombra già di spaventoso lutto, assordata a gemiti e ululati, al nunzio, certo della sconfitta, confuso dei danni: che fosse caduto in battaglia il re; non campato un sol uomo; nessun riparo allo sterminio della patria. Donde al veder Federigo, pur fuggente sulla insanguinata nave, con le reliquie della flotta, si voltò il popolo in gioia, scordando i lutti privati nella speranza di salvar la cosa pubblica. Affollansi intorno a lui ansiosamente i cittadini; dicono a gara che nulla han perduto, quand'egli è salvo; prenda tutto il lor sangue, tutto l'avere per difender la Sicilia. E Federigo rispondea con magnanime parole: reggersi ogni cosa quaggiù ai cenni di Dio; la umana vita avvicendarsi di prosperità e sventure; qual meraviglia se in diciassett'anni di vittorie, toccavasi una sconfitta? nè perduta si tiene la guerra, là dove avanzan uomini, arme, danari; con un po' di costanza, si rivolterebbe la fortuna; chè niuno mai domò la Sicilia unanime e risoluta. Incontanente scrisse a Palermo, alle altre città, con uguale costanza; appose la sconfitta alle nostre navi, avviluppatesi tra loro; la perdita sminuì, come si suole: esortavale a tener fermo a' primi affronti de' nemici; ed egli, saputo ove si drizzassero, là correrebbe con nuove forze.
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