In tutto il rimanente del regno di Federigo, o in que' de' fiacchi suoi successori, non dettavasi poi in Sicilia alcun'altra legge di ordine pubblico, ma particolari statuti, più atti a manifestare che a riparare i crescenti disordini dello stato. Dei quali fu sola radice l'aristocrazia, che tenne in Sicilia un corso difforme dagli altri reami d'Europa, dove nacque nelle età più barbare, piena d'abusi, e poi l'interesse unito dei monarchi e del popolo, a poco a poco, la raffrenò. Ma appo noi, come fondata al tempo delle prime crociate e dalla mano d'un principe, fu moderata nel cominciamento; e se tendea per sua natura all'usurpare, la ritirarono a que' termini i monarchi, e il romor del vespro la fe' stare; finchè ripigliando nel corso di quella lunga guerra e riputazione e facultà, e indi cupidigia e baldanza, divenne l'ordine più possente dello stato: per soperchio di rigoglio recossi in parte tra sè medesima; rapì in quelle discordie e la corte e i popoli; e lacerò la Sicilia negli ultimi tempi del regno di Federigo. Precipitò indi al peggio, non raffrenandola le deboli mani dell'altro Pietro e dell'altro Federigo; venne alfine ad aperta anarchia feudale. E allora si smarrì la cosa pubblica nelle izze di parti; non si udì più il nome di Sicilia, ma di Palermo, di Messina e di questa e quell'altra terra; il nome di parzialità, come chiamavanle, l'una italiana, l'altra catalana; il nome di famiglie, Palizzi, Alagona, Ventimiglia, Chiaramonte e altri superbi, nemici di sè stessi e della patria: entravano a' soldi de' baroni coloro che, prese le armi nelle guerre della rivoluzione, non sapean divezzarsi dall'ozio e dalla militare licenza; incominciavano i liberi borghesi a far parte co' baroni, sotto il nome di raccomandati e affidati.
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