Morto immaturamente il Tardia, senza far discepoli, si ricadde in tale ignoranza di arabiche lettere, che una iscrizione cufica cubitale passò tuttavia in Palermo per caldaica e scolpita poco appresso il diluvio. Gli eruditi del paese, quando lor occorrea di interpretare qualche leggenda di lapidi o monete, più corta via non trovavano che di rivolgersi ad Olao Gerardo Tychsen professore di Rostock, il quale avea gran fama, meritata non credo, in quei rami di filologia arabica.
Tra tanta penuria, piombò in Palermo il maltese Giuseppe Vella, frate cappellano dell'Ordine Gerosolimitano, il quale con quel suo dialetto mescolato d'arabico corrotto e di pessimo italiano, potea comprender tanto dell'idioma degli Arabi, quanto un contadino di Roma intenderebbe Cicerone o Tito Livio senza avere mai studiato il latino; e, per giunta, il Vella ignorava i caratteri, nè li apprese che a capo di parecchi anni, da uno schiavo musulmano che vivea in Palermo. Digiuno d'ogni erudizione, ma furbo, baldanzoso, sfacciato, ciarlatano che testè facea mestier di dare i numeri del lotto, il Vella aprì nuova bottega: fabbricò due codici diplomatici in arabico, dicea, ma ne mostrava la sola versione italiana; dei quali il primo intitolò Consiglio di Sicilia, e vi finse il carteggio degli emiri dell'isola coi principi aghlabiti e fatimiti d'Affrica; il secondo, Consiglio d'Egitto, e lo disse raccolta delle lettere dei principi normanni di Sicilia, i quali, per passatempo, raccontassero tutte le faccende di casa loro ai moribondi califi fatimiti d'Egitto.
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