Così arricchiti subitamente i pochi intraprenditori stranieri, rovinati gli indigeni che non godeano i medesimi privilegii di dritto o di fatto, ne doveano seguitare due mali: che la proprietà ogni dì più che l'altro si tramutasse in man dei Romani, e che andassero a precipizio le industrie cittadinesche e sì il commercio con gli altri popoli fuorchè i dominatori. Dal peso e dalla vergogna del giogo nascea quella disperazione universale, che al certo attizzò la prima guerra servile (a. 134-132 av. l'e. v.), e che spinse alla seconda (a. 103-101 av. l'e. v.) non poche popolazioni libere. Pur coteste guerre avevano origine da più antica e profonda iniquità di cui non erano innocenti i cittadini greci di Sicilia. Gli schiavi di tante lingue congregati nell'isola, e forse gran parte siciliani, dopo lungo alternar della fame con la rapina, della abiezione con gli omicidii, si risovvennero della dignità umana, e invocando il cielo che credeano la dovesse vendicare, si adunarono nei più rinomati santuarii, nel tempio di Cerere ad Enna o dinanzi i tremendi altari dei Palici; bandirono la naturale uguaglianza degli uomini; e valorosamente la sostennero con le armi, aiutati più o meno dai cittadini, finchè Roma, che s'intendea meglio di quella ragione, li vinse e sterminò. E mossa dalla prudenza che accompagnava la ferocità sua, l'aristocrazia romana volle rimediare con leggi che rendessero più sopportabile la condizione dei Siciliani: ma non giovò, perchè tal minuta giustizia non troncava la radice del male, e d'altronde non si osservava, per essere elusa e soffocata a Roma dalla prepotenza dei grandi.
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