E allora la repubblica aristocratica della Mecca piegossi a patteggiare col cittadino ribelle (a. 628); poco appresso a salutarlo principe, a confessarlo profeta, a sgomberar la Caaba dei trecensessanta idoli, per renderla al culto del Dio uno (a. 630). Le tribų beduine, le cittā del Iemen, tutti gli Arabi fuorchč i cristiani di Hira e di Ghassan ch'erano soggetti agli stranieri, credettero, accettarono per interesse, o per forza si sottomessero; abbattuti per ogni luogo i simulacri delle antiche divinitā; sforzati a tacersi, o a celebrare il Vincitore, i poeti che l'aveano nimicato sė gagliardamente; accettati i luogotenenti suoi nelle province: la nazione divenne una, e riconobbe un sol capo.
Questi intanto aspirava a cose maggiori. La religione rivelata dal creatore del mondo non potea limitarsi a un sol popolo, e il popolo arabo non potea restare in pace tra sč quando non portasse la guerra in casa altrui. Pertanto il Profeta non avea mai fatto eccezione di genti nč di luoghi alla legge di combattere gli infedeli tanto che si convertissero o pagassero tributo. Quando gli parve certa la sottomissione dell'Arabia, e prima anco di entrare alla Mecca, osō mandare messaggi ai potenti della terra, richiedendoli di far professione dell'islamismo. Dei quali il re di Persia, che si tenea signor feudale dell'Arabia, lacerō le insolenti lettere; il che intendendo Maometto, sclamava: "E cosė Dio laceri il suo reame:" e a capo di dieci anni i Musulmani il fecero. Il re d'Abissinia non parve ostile.
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