All'alba del settimo dì, i prigioni siracusani gustavano amarezza novella a vedere la fiorente città, di cui la fama tanto parlava, uscita dall'antico giro delle sue mura, coronata di sobborghi, o meglio, sclama Teodosio, forti e superbe città, "l'iniqua Palermo, che tenendo a vile d'essere governata da un contarco, si impadronisce già d'ogni cosa, ha messo noi sotto il giogo, e minaccia d'assoggettare le genti più lontane, fin gli abitatori della imperiale Costantinopoli." Così il prigione, struggendosi d'invidia municipale, inveiva contro un nome; confondea Palermo capoluogo di provincia sotto i Bizantini, con Palermo capitale musulmana, "ridondante di cittadini e di stranieri, che pareavi adunata tutta la genía saracenica da levante a ponente et da settentrione al mare." Un folto popolo andò a incontrare il convoglio, tripudiando alla vista di quel bottino, intonando versetti del Corano, che Teodosio chiama canti trionfali e peani.
Dopo cinque dì, l'arcivescovo e i preti suoi erano addotti allo emiro supremo, dice Teodosio, senza dubbio il wâli di Sicilia, "sedente in trono, sotto un portico(714), ascosto dietro una cortina per tirannesca superbia." L'emiro e l'arcivescovo fecero per interpreti una breve disputa religiosa, nel cui tenore, dato da Teodosio, ben si ravvisa il gergo musulmano; e vedesi che il tiranno parlava senza orgoglio nè intolleranza; il pastore con dignità e circospezione. Accomiatati per tornare alla prigione, attraversavano la piazza di mezzo della città, probabilissimamente quella ch'or si chiama del Palagio Reale, seguendoli "moltissimi Cristiani che senza dissimulazione li compiangeano, e molti Musulmani tratti da curiosità di vedere il rinomato arcivescovo;" dei quali Teodosio non dice che desser su la voce a que' primi, nè profferissero ingiurie.
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