Spaventevole siccità travagliava il paese; il suolo non poteva intaccarsi ormai con aratro nè zappa(911). L'oratore, costernato, parlando a gente costernata, descrive diffusamente, e pur con vivezza e forza d'immagini, la pubblica calamità. Commossi gli animi, risalisce, secondo suo mestiere, alla causa di tutti i mali, il peccato. "E questo flagello ne percuote, ei sclamava, perchè ci rodiamo d'invidia; perchè vogliamo superbire contro gl'infimi; godiamo nel mal del prossimo; ne laceriamo l'un l'altro a calunnie; ci abbandoniamo a stolte cupidigie; siam rotti a lussuria(912); lupi affamati nell'avere altrui; stizzosi peggio che cameli; senza carità pei poverelli; senza rispetto verso la Chiesa. E i ministri della Chiesa (ei continua nell'impeto dell'orazione) non son essi i primi agli scandali; non si ingiuriano tra loro; non si odiano; non cercan vendetta; non si tendono insidie reciprocamente; e, vedendo il peccato in trionfo, non stan essi mutoli? I laici poi perchè guardan la gobba dei sacerdoti, e non la propria loro? E che! la città è piena di vizii; odo far giuramenti ogni dì, non ostante ch'io v'abbia ammonito a scansarli(913), e vi abbia presagito la collera del cielo: qual maraviglia dunque che vi si apparecchi tal mèsse e tal vendemmia, e che Iddio gastighi tutti per le peccata dei pochi, e fin gli animali e il terreno per le peccata degli uomini(914)?" In tutta questa diceria non si trova sillaba che indichi appunto i tempi. Nondimeno quello scrupolo a far giuramenti, quella turbolenza del clero, mi fan pensare al nono secolo più tosto che alla prima metà del duodecimo.
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