S'erano essi adagiati a prendere un po' di cibo, fidandosi nel sito inespugnabile; stanchi della sanguinosa giornata; tenendo guardie nei luoghi accessibili e negli altri no; quando li percosse il noto grido di guerra dei nemici. Scompigliati e confusi, non corrono a gittar a basso delle rupi quel pugno di schiavi, non a difendere la strada del castello. Ibrahim dunque, udito il segno de' suoi, salì senza contrasto con le altre schiere; spezzò le porte; e comandò l'eccidio. Era la domenica, primo d'agosto novecento due174.
Ibrahim efferatamente abusò questa vittoria. Alla prima fe' trucidare, con gli uomini da portar armi, anco le donne, i bambini, i chierici, cui la legge musulmana perdona la vita; fece porre fuoco alla città; dar la caccia ai fuggenti per le foreste di que' monti ed entro le caverne; addurre a sè i cattivi, perchè niuno di cui potea comandare la morte non gli escisse di mano per umanità o avarizia altrui. Così, recatagli una gran torma nella quale si trovò Procopio vescovo della città, Ibrahim chiamatolo a sè: "Cotesti tuoi capelli bianchi" gli disse "mi ti fan parlare pacatamente. Se e' ti rendon savio, abiura la fede cristiana; e salverai la tua vita e di tutti costoro; e ti darò tal grado, che in Sicilia sarai secondo a me solo." Procopio sorrise senza rispondere; e incalzandolo il Musulmano: "Ma tu non sai chi ti parla?" replicò. "Sì; l'è il demonio per bocca tua; e indi rido." Onde Ibrahim volto agli sgherri comandava: "Sparategli il petto, cavategli il cuore, ch'io vo' cercarvi gli arcani di cotesta mente superba:" linguaggio del vero conio di Ibrahim.
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