Di marzo novecento nove, Ziadet-Allah, all'avviso di un'ultima sconfitta d'Ibrahim, tenendosi spacciato e tradito da costui, dal primo ministro, dai soldati, dai cittadini, si deliberò a fuggire incontanente. Dà voce di riportata vittoria; fa tagliar le teste ai miseri che teneva in carcere e condurle a trionfo per le strade di Kairewân, come se fossero dei nemici uccisi in battaglia; e intanto a Rakkâda, ch'era discosta a quattro miglia, entro il palagio si caricavano trenta cameli d'arredi preziosi, oro, gioielli; mille Schiavoni della guardia erano messi in ordinanza, e dato loro a portar mille dinar d'oro per cadauno; le mogli e le più gradite concubine del tiranno montavano in lettiga. Al cader del giorno ei con la corte cavalcò in fretta alla volta di Tripoli, per passare indi in Egitto.
Risaputa la quale fuga, tutta Rakkâda sgombrò, ch'era soggiorno di scrivani e servidori di corte: a lume di fiaccole tante famigliuole, con loro robe preziose, correano per la campagna su le orme del principe. Ma il popolaccio di Kairewân, invidioso e turbolento, piombò la dimane sopra la città regia; per sei giorni continui frugò le case cercando tesori sepolti, e portò via masserizie; finchè comparve la vanguardia di Kotâma, che ricacciollo alla capitale. Dove la schifosa anarchia della paura avea consumato, in questo mezzo, quel po' di forza vitale che rimaneva alla schiatta arabica. Ibrahim-ibn-abi-Aghlab, usando un attimo di favor popolare, convocò i giuristi, i capi delle famiglie nobili della città e i principali mercatanti; lor disse, che se Ziadet-Allah se n'era fuggito, tanto meglio; poichè la mala fortuna se ne andrebbe con quel poltrone; or si potrebbe far la guerra; lo aiutassero di danari ed egli saprebbe rannodare l'esercito, salvar l'onore e la dominazione degli Arabi: per Dio non si dessero in mano di quelle frotte di vinti rivoltati, di barbari settatori d'un eretico, calpestatori d'ogni legge.
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