CAPITOLO X.
L'ultimo e men tristo sforzo dell'impero greco sopra la Sicilia, fu ordinato da un frate eunuco, per nome Giovanni, il quale pervenuto era al comando per magagna senza esempio: messo innanzi un garzonaccio fratel suo, che se ne invaghisse Zoe, vicina ai cinquant'anni; fattole avvelenare Romano Argirio, e, mentre spirava, gridar imperatore il drudo, sposarlo la dimane dinanzi il patriarca di Costantinopoli che benedisse le nozze. Michele Paflagone, salito al trono per tal via, mezzo scimunito e mezzo pentito, dava il nome; Zoe stava come prigione, e Giovanni reggea lo stato con fortezza, diligenza ed astuzia. Ritratto lo scompiglio ch'era in Sicilia, il monaco ministro adescō Akhal; deliberō l'impresa; ne fe' capitano Giorgio Maniace, il quale nelle guerre di Siria avea dato prove (1030, 1034) di grandissimo valore e pronto consiglio. Ma Giovanni, tra nipotismo e diffidenza, prepose al navilio uno Stefano, marito della sorella, nč uom di mare, nč di guerra, nč di alcuna virtų. Chiamato Maniace dai confini dell'Armenia935, passaron due anni tra andirivieni e preparamenti e ridurre a disciplina, quanto si potesse, il nuovo esercito. Il quale ridondō al solito di stranieri: Russi936, Scandinavi937, Italiani di Puglia e Calabria e con essi una compagnia di ventura, di qualche cinquecento cavalli, mescolati Italiani e Normanni, la quale s'era condotta ai soldi del principe di Salerno e recavagli or comodo ed or molestia, sė ch'ei volentieri la dič in prestito a Maniace938.
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