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      Tanto è vero che il conoscere se stessi è ancora più difficile dello scrivere una buona tragedia.
      Per sua fortuna, però, dopo molto vano errare nel buio, - come dice il grande critico danese Georg Brandes, - l'Andersen si trovò una sera dinanzi ad una porticina misteriosa: "La toccò appena, e l'umile porticina che menava al regno delle fate, si spalancò per incanto; e dentro ei vide luccicare l'acciarino, che aveva ad essere per lui quello che fu per Aladino la famosa lampada. Lo battè - ed ecco apparire i tre cani, con gli occhi grandi come scodelle, come mole da molino, e come il torrione di Copenaghen; e portavano i tre scrigni, di monete di rame, d'argento e d'oro. Era la prima scintilla - la prima novella; e dietro ad essa vennero tutte le altre. Felice l'uomo che sa trovare il suo vero acciarino!"
      La caratteristica dell'arte di H. C. Andersen (sono anche queste parole del Brandes) era sempre stata "l'intima simpatia con tutto quanto è infantile, nel senso più ampio: con i fanciulli, anzi tutto, e con quanto più somiglia ai fanciulli; gli animali, per esempio - bambini che non divengono mai grandi - e le piante, anch'esse simili ai bambini, ma a bambini che dormano sempre."
      Essendo sempre rimasto fanciullo egli stesso, però, questa simpatia gli veniva tanto naturale, che non ne aveva fatto mai gran caso. Raccontava le novelle ai suoi piccoli amici, perchè la gioia della cara figlioccetta Minni (la nipotina del suo benefattore Jonas Collin) o di Carlottina Melchior, era gioia anche sua, - come a Parigi, quando Arrigo Heine lo aveva condotto da sua moglie, ed egli aveva trovato la signora Heine "circondata di bimbi presi a prestito," era stata per lui una gioia aiutarli a giocare, poi che in francese raccontare non poteva.


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40 Novelle
di Hans Christian Andersen
pagine 345

   





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