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      Staccato il cadavere, gli spiccai innanzitutto la testa dal busto e infilzata sulla punta d’una lancia la rizzai sulla sommità del patibolo. Quindi con un accetta gli spaccai il petto e l’addome, divisi il corpo in quattro parti, con franchezza e precisione, come avrebbe potuto fare il più esperto macellaio, li appesi in mostra intorno al patibolo, dando prova così di un sangue freddo veramente eccezionale e quale si richiedeva a un esecutore, perché le sue giustizie riuscissero per davvero esemplari.
      Avevo allora diciassette anni compiti, e l’animo mio non provò emozione alcuna. Ho sempre creduto che chi pecca deve espiare; e mi è sempre sembrato conforme ai dettami della ragione ed ai criteri della giustizia, che chi uccide debba essere ucciso.
      Un delinquente è un membro guasto della società, la quale andrebbe corrompendosi man mano se non lo sopprimesse. Se abbiamo un piede od una mano piagata e che non si può guarire, per impedire che la cancrena si propaghi per tutto il corpo, non l’amputiamo? Così mi pare s’abbia a fare de’ rei. E benché innanzi nell’età e ormai vicino a rendere la mia vita al Creatore ed a comparire al suo supremo tribunale, non provo alcuna tema per ciò che ho fatto: se il bisogno lo richiedesse e le forze me lo con sentissero, tornerei da capo senza esitanza, perché mi considero come il braccio esecutore della volontà di Dio, emanata dai suoi rappresentanti in terra.
      Trascorsi due mesi, meno otto giorni, dovetti ripetere l’ufficio mio e il 14 gennaio 1797 impiccai in Amelia, Sabatino Caramina che aveva commesso un omicidio per bestiale furore e dopo settantaquattro giorni, il 28 marzo 1797, mazzolai e squartai in Valentano Marco Rossi che aveva ucciso suo zio e suo cugino per vendicarsi della non equa ripartizione fatta di una comune eredità.


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Mastro Titta il boia di Roma
Memorie di un carnefice scritte da lui stesso
di Anonimo
pagine 421

   





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