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      Il bargello di campagna, trovò i summenzionati in possesso di una bisaccia, contenente tutta quanta la re furtiva. Ma nell’interrogatorio che gli arrestati subirono in Calcata, dissero che quella bisaccia l’avevano tolta la notte stessa a tre malandrini, sorpresi sulla strada, coi quali s’erano colluttati, e che erano poi fuggiti lasciando la bisaccia sul terreno. Quanto alle scarpe nuove del mulattiere, che il D’Andrea s’era messe, questi si scusò dicendo, che non potendo camminare colle proprie, tanto eran rotte e malconcia, aveva prese provvisoriamente quelle dalla bisaccia.
      Tradotti a Roma e sottoposti a nuovi interrogatori, il D’Andrea, giovane ventenne appena, confessò tutto: gli altri negarono recisamente. Ma fu vana opera. Convinti del reato, vennero condannati alla forca ed allo squartamento, anco per dare una soddisfazione al re di Napoli, Ferdinando di Borbone, che strepitava per averla.
      È impossibile descrivere la densità della folla, che s’era agglomerata in piazza del Popolo la mattina del 19 gennaio 1801, quando eseguii la sentenza. Scesi dalla carretta coi confortatori, la gente ci circondò d’ogni parte e a stento i soldati poterono aprirci il varco per salire sulla piattaforma del palco. Ma i condannati erano solidamente legati colle mani dietro le reni: i cappuccini stavano loro intorno e sarebbe riuscito vano qualsiasi tentativo di fuga.
      Sarebbe inutile ripetere i particolari dell’esecuzione, che non offrì nessuna varietà. Morirono coraggiosamente e cristianamente, dopo aver chiesto perdono dei loro delitti.


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Mastro Titta il boia di Roma
Memorie di un carnefice scritte da lui stesso
di Anonimo
pagine 421

   





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