In sull’esordire di maggio dell’anno 1802 fui chiamato ad Orvieto per l’impiccagione di Agostina Paglialonga, condannata all’estremo supplizio per aver barbaramente trucidato tre figli.
Era l’Agostina rimasta vedova con tre bambini, una appena svezzato dal latte, il secondo di due anni e mezzo, il terzo maggiore di undici mesi a questo. Bella e appariscente nelle forme, simpatica di fisionomia e sufficientemente agiata, ebbe presto molti corteggiatori, alcuni per semplice vaghezza di godimenti, altri animati dall’onesto intendimento di farle deporre le gramaglie vedovili, riconducendola all’altare. Fra questi era un giovane macellaio, una specie di Ercole, gagliardo e promettitore di eccellenti risultamenti per una donna inclinata ai rapporti sessuali. Naturalmente costui ottenne la preferenza dall’Agostina: ma quando ebbe raggiunto l’intento di possederla, incominciò a lungheggiare sul proposito del matrimonio.
Messo finalmente dalla Paglialonga fra l’uscio e il muro, si scusò dicendo che non si sentiva di sposare una donna con tre figli, non suoi.
- È questo l’ostacolo unico? gli chiese una sera l’Agostina
- Questo soltanto.
- Senza figli...
- Ti sposerei anco domani.
La donna non insisté con altre domande. Passate tre ore in frenetici amplessi il macellaro se ne andò, dimenticando sul tavolo un’ascia, di quelle che si adoperano per spezzare le ossa, che aveva portato ad arruotare.
Rimasta sola, la Paglialonga, prese in mano l’ascia: un terribile pensiero le balenò alla mente e in breve l’invase in modo tale da soggiogarla.
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