Afferrò l’ascia ed entrata nella camera dove dormivano i suoi bambini li tolse uno per uno dal letticciuolo e li assassinò, spaccando loro il petto ed il cranio coll’arma fatale e buttandoli estinti uno sopra l’altro come tanti abbacchi macellati. Poi li fece a pezzi, li portò in cucina e li mise a bollire nella caldaia, colla quale soleva fare il ranno per il bucato. Coll’acqua stessa levò le macchie di sangue del pavimento e ripulì l’ascia in modo da renderla tersa, e rilucente come nuova.
Compiuto l’orribile misfatto trasse le carni cotte dalla caldaia e andò a disperderle pei campi, affinché servissero di pasto ai cani ed alle altre bestie vaganti, e sopravvenuto il mattino riportò l’ascia al macellaio, annunziandogli che i suoi bambini era venuto a prenderli un fratello del defunto marito, il quale li aveva condotti seco in un lontano villaggio delle provincie meridionali. E tale notizia ripeté a quanti le chiedevano conto dei suoi figliuoletti.
Ma Dio non volle lasciare impunita quella scellerata mano: un grosso cane entrato in Orvieto con un osso in bocca richiamò l’attenzione di un medico, che riconobbe in quell’osso la tibia di un bambino. Si fecero delle ricerche e si trovarono altri resti. La voce pubblica incominciò ad accusare la Paglialonga dell’eccidio dei suoi bambini e venne arrestata.
Arrestata confessò cinicamente il delitto. Venne condannata e la mattina del 5 maggio 1802, io l’ebbi ad impiccare. La fama del delitto aveva chiamato ad Orvieto una folle enorme dai paesi circonvicini.
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