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      Dopo una sequela di bricconerie e di violenze, fra Pasquale, avendo ucciso un rivale in amore, di gran casato, dovette buttarsi alla macchia e dedicarsi alla vita del bandito. Ce n’erano di molti a quell’epoca e accadeva spesso che si mettevano in lotta fra loro, con gran compiacimento del governo, al quale non pareva vero che i masnadieri si ammazzassero da sé, risparmiandogli la spesa e l’incomodo di farlo esso.
      Fra Pasquale batté la campagna per molti anni, sfuggendo a tutte le trame, messe su per pigliarlo. I birri stessi lo aiutavano un po’ per paura, un po’ per simpatia, un po’ ancora per avidità di lucro, imperocché, soleva distribuire anche a loro una parte dei suoi bottini.
      Era così giunto a quell’età, in cui anco gli uomini più robusti, incominciano a sentire il bisogno del riposo, e andava mulinando nella testa come avrebbe potuto procurarselo, quando seppe che era stata messa un enorme taglia sulla testa di un altro bandito, contro il quale si erano spiegate tutte le maggiori energie, e le più grandi sottigliezze per agguantarlo.
      La taglia - ripeto, enorme a quei tempi - era di tremila scudi. Ma nessuno aveva abboccato: c’erano troppi pericoli da affrontare per conseguirla.
      Fra Pasquale - continuiamo a chiamarlo così, benché tal nome non avesse ancora assunto, - ebbe un’idea luminosa e tosto s’accinse a tradurla in atto.
      Una sera, mentre Monsignor Fiscale aveva appena finito di cenare e stava facendo il suo chilo, con un fiasco di vino accanto e la tavola tuttora imbandita, gli fu annunziata la venuta di uno sconosciuto, che chiedeva di parlargli.


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Mastro Titta il boia di Roma
Memorie di un carnefice scritte da lui stesso
di Anonimo
pagine 421

   





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