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      Fra Pasquale le tolse innanzitutto gli stivaletti e le calze, le lavò le ferite coll’acqua di fonte, le applicò dell’arnica fresca, che andò a cogliere a pochi passi dalla capanna, ove la coltivava, trapiantata.
      Quindi le levò il candido pannolino che le copriva il capo: la ricca capigliatura, sciolta così da ogni ceppo le cadde lungo le spalle incorniciandole il bellissimo volto ovale, pallido, ma pur sempre fiorente di giovinezza.
      La fanciulla non si svegliava: fra Pasquale prima di spruzzarle il volto, o di darle ad odorare dei sali, che l’avrebbero richiamata in sensi, volle svestirla completamente: le slacciò il busto, con ansia febbrile, e le strappò i bottoni della bianca camiciuola la quale cadde, offrendo alla vista del libertino eremita i tesori d’un bel seno virginale. Liberata così dall’oppressione, che il busto le cagionava, la respirazione della giovinetta diventò regolare e poco a poco le sue labbruzze ripresero il bel colore corallino e le gote le si rifecero vermiglie.
      Fra Pasquale la contemplava estatico.
      Nulla di più leggiadro si era mai offerto a’ suoi avidi sguardi.
      Egli tratteneva il respiro, per tema di destarla, e mentre le sue pupille rutilanti la dardeggiavano, colle nari dilatate assorbiva le fraganze soavi, emanate da quel corpo di Psiche.
      La fanciulla sollevò lentamente, dopo breve istante le lunghe ciglia, quindi le palpebre, de’ suoi grand’occhi morati, e così stette per un momento immobile e silenziosa. Non aveva per anco ricuperato il pieno esercizio delle facoltà mentali: il deliquio le incombeva ancora sul cervello.


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Mastro Titta il boia di Roma
Memorie di un carnefice scritte da lui stesso
di Anonimo
pagine 421

   





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