Era costui un giovinotto di venticinque anni pazzamente innamorato di una fanciulla benestante, appena quadrilustre.
I suoi amori erano stati sempre contrastati dai parenti della ragazza; ma questa gli voleva un bene dell’anima e non c’era stato verso di distoglierla dal suo divisamento di sposarsi il Guidi, volendo o non volendo i suoi genitori.
Si vedevano di notte in una stalla, in casa della fanciulla, nascostamente di tutti, dove l’amante s’introduceva di soppiatto e restando per ore ed ore in attesa.
La relazione fra i due continuava da parecchio con reciproca soddisfazione. Ma un giorno Pepita, tale il nome della donzella, fu avvertita dalla madre che suo padre l’aveva promessa in isposa a un campagnuolo, ricco ed anziano, ma fornito di molti beni immobili e di denaro.
- Siete matti? - gridò spaventata la giovinetta - io non isposerò il vostro burrino quattrinaio, nemmeno se m’aveste ad ammazzare.
- Perché? - le domandò dolcemente la madre.
- Perché... perché... perché non voglio sposare. Voglio restar zitella.
- Pepita, bada: tuo padre non ischerza. Vuole questo matrimonio assolutamente: se ti opponi t’incoglierà male.
La fanciulla non aggiunse verbo: non si mostrò né assenziente, né dissenziente. Per cui la madre la giudicò non lontana dall’arrendersi alla volontà paterna, e disse al marito: «Lasciamola stare per qualche giorno. Combatte le ultime ripugnanze».
Pepita alla sera si trovò al solito convegno coll’amante e le prime parole che gli rivolse furono queste:
- Portami via.
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Guidi Pepita
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