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      Gli erano stati dati per compagni di cella degli spioni abilissimi, col mandato di estorcergli qualche confessione, qualche mezza confidenza, qualche imprudente rivelazione, sull’esser suo, sulle sue gesta, sui rapporti con terzi, e toccavia. Ma Domenico Guidi, o lo sapesse, o lo sospettasse, rimase ermeticamente chiuso in se stesso. Fu tormentato con improvvisi interrogatori di giorno e di notte, nella cella e fuori. Si adoperarono suggestioni d’ogni maniera e riuscirono frustate.
      L’inquirente aveva tenuto calcolo dei più minimi particolari e studiato tutti i versi per edificare un dramma, il cui epilogo fosse l’assassinio per opera del Guidi, e la sua fantasia si era esaurita senza raggiungere il suo intento.
      Quand’ecco un giorno giungergli la notizia che Pepita, chiusa nel chiostro delle Clarisse, era stata riconosciuta gravida. Senza por tempo in mezzo, si reca al convento, ottiene di parlare alla superiora, e la interroga se credesse possibile che lo scandalo fosse avvenuto nel monastero. Ma questo venne assolutamente escluso. La vita claustrale era mantenuta con tale rigidità, che nessun trasporto, né estraneo, né interno, potevano aver le novizie e le monache con persone d’altro sesso.
      Doveva dunque essere avvenuto prima della sua entrata.
      Il giudice assunse altre informazioni in casa di Pepita e la madre della fanciulla accasciata dalla notizia dello stato in cui si trovava sua figlia, gli narrò il progetto del matrimonio fatto da suo marito per Pepita e le ripulse della fanciulla quando glie lo comunicò.


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Mastro Titta il boia di Roma
Memorie di un carnefice scritte da lui stesso
di Anonimo
pagine 421

   





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