E appunto a Campo de’ Fiori, per esemplarità maggiore, ebbe luogo il supplizio.
Gioacchino Rinaldi era uomo sulla quarantina, piuttosto inoltrata. Rozzo della persona, della fisonomia e delle maniere, ma molto ben provveduto di roba e quattrini, aveva condotto in moglie una bellissima ragazza di Trastevere, di nome Giacinta, la quale aveva ceduto alla volontà de’ parenti, più che alla sua inclinazione, sposandolo.
Giacinta non sentiva una decisa avversione pel marito, lo tollerava, ad onta della sua bruttezza e gli si mostrava grata per le finezze che le prodigava: abiti costosissimi, gioielli preziosi, e quanto al trattamento alimentare: bocca che cosa vuoi? Ad onta della provetta sua età Gioacchino era ancora robusto e fervente nelle lotte genetiche. Tanto che la sposa gli era uscita quasi subito gravida. Una donna che avesse avuto soltanto degli appetiti materiali, avrebbe potuto appagarsi ed essere felice con lui.
Disgraziatamente Giacinta sapeva d’essere bella, poiché glie l’avevano detto mille volte i più simpatici, garbati e galanti giovanotti di Trastevere.
I suoi occhi mori, tagliati a mandorla a volte languidi e irrorati, stillanti di voluttà, a volte fosforescenti e saettanti di passione; la sua piccola bocca rossa, sanguigna, fra le cui labbra spiccavano denti candidi, aguzzi come quelli di un sorcetto, fatti per dar baci e morsi, dolci del pari; il suo bel viso ovale, dalla pelle bruno-dorata, più morbida del velluto; il suo collo rotondo e grassottello; la sua testa vezzosa, dai capelli neri e ricciuti; le sue piccole orecchie rosee e diafane, incitanti a sussurrarle soavi parole d’amore; la sua superba persona, slanciata, snella e pur densa e pasciuta, dal petto torreggiante, dalle anche poderose ed ondeggianti nell’incedere; le sue mani bianche e levigate; i suoi piedi arcuati e duttili, avevano già suscitati desideri cocenti e provocate delle dichiarazioni alle quali non era rimasta sempre insensibile.
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