Pagina (76/421)

   

pagina


Pagina_Precedente  Pagina_Successiva  Indice  Copertina 

      Il frutto che la sua donna portava in seno forse non era suo. Nella sua casa, se non l’avvertivano, sarebbe entrato un bastardo. E se era suo, chi gli avrebbe potuto togliere il dubbio straziante? Bisognava finirla. Uccidere l’amante, la moglie e il suo portato.
      Uscì, dicendo che sarebbe tornato a sera tarda. Invece sull’imbrunire s’appostò in luogo dove poteva vedere ciò che succedeva in negozio.
      Quando la gente incominciò a diradarsi sulla piazza e nella sua bottega fu acceso il lume, vide Giacinta e il garzone che si scambiavano delle moine e delle tenerezze. Poi il garzone s’avanzò sul limitare del negozio, diede un’occhiata di fuori e chiuse le imposte, lasciando aperto uno spiraglio, d’onde filtrava un filo di luce.
      Gioacchino frenò la propria impazienza, e attese altri cinque minuti, che gli parvero, nell’angoscia disperata in cui versava, cinque secoli. Poi attraversò la strada e irruppe nel negozio come una bomba.
      I due amanti erano là, nel fondo, abbracciati, deliranti. Il Rinaldi non aveva pensato a munirsi del coltello, ma ne trovò uno sul banco: l’afferrò, e avanti che potessero rinvenire dalla sorpresa terribile, sgozzò prima il garzone, come un abbacchio, recidendogli quasi la testa, poi l’immerse reiteramente nel petto e nel ventre della sua donna, perché voleva distruggere lei ed il feto. E i feti erano due! Alle grida dei morenti, accorsero i passanti, quindi le guardie, le quali arrestarono il Rinaldi, che pazzo di furore continuava a menar coltellate nel ventre alla moglie, come l’amante, già estinta.


Pagina_Precedente  Pagina_Successiva  Indice  Copertina 

   

Mastro Titta il boia di Roma
Memorie di un carnefice scritte da lui stesso
di Anonimo
pagine 421

   





Giacinta Rinaldi Rinaldi