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      Annunziatagli la sentenza di morte, cadde in una specie di letargo, per trarlo dal quale bisognò ricorrere ai più poderosi eccitanti e giunse al patibolo più morto che vivo. Morì ignobilmente, come ignobilmente aveva vissuto.
      XXIII.
      L’assassinio del compare.
      Il 9 giugno 1806 dovetti recarmi a Rieti, per eseguire una sentenza in persona di Bernardino Salvati pure condannato alla forca.
      Non era costui un malfattore nel vero senso della parola, bensì un disgraziato che in un trasporto d’ira, causato dalla gelosia e giustificato dal fatto, aveva ucciso un suo compare.
      Ecco com’era andata la cosa:
      Salvati aveva una bella moglie e teneramente l’amava. Uscita incinta dopo parecchi anni di matrimonio, la gioia di Bernardino, che ardentemente desiderava di aver un figlio, non ebbe confini. Pareva diventato pazzo: tutte le sue preoccupazioni erano per il nascituro: fece spese enormi per il suo piccolo corredo e si preparò a celebrare la nascita con grandi feste.
      - E se fosse una femmina? - gli domandava taluno.
      - Sarà la ben venuta del pari. Eppoi una volta incominciato non c’è ragione di smettere. Checca mia saprebbe farmi poi anche il maschio.
      Quando Dio volle il giorno auspicato venne e la moglie di Bernardino Salvati diede alla luce un amore di bimbo, che mandò in sollucchero il fortunato padre.
      Gli apprestamenti già fatti gli parvero pochi e volle aumentarli. Il giorno del battesimo la casa dei Salvati pareva volesse gareggiare con casa Torlonia.
      La sacra cerimonia venne celebrata con la massima pompa e quattro carrozze a due cavalli trasportavano al tempio il neonato, la levatrice, il compare e una folla di testimoni e d’invitati.


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Mastro Titta il boia di Roma
Memorie di un carnefice scritte da lui stesso
di Anonimo
pagine 421

   





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