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      Incominciavano le stelle a impallidire e la tinta del cielo a farsi un po’ più chiara, quando udì uno stormir di foglie, dal lato della siepe, che divideva il frutteto dalla strada. Tese l’orecchio e sentì il rumore di passi, benché lievissimi. Il rumore si avvicinava. Alzò la testa e vide un giovinetto a pochi passi da lui, con un canestro sotto il braccio, che si avvicinava ad un albero di pere, meno bello di quello spogliato, ma pur promettente.
      Non si mosse. Volle che il furto avesse un principio d’esecuzione. Non attese molto: il giovane scalzo, abbracciato il tronco dell’albero, vi si arrampicava. Aveva già afferrato un grosso ramo e stava per prendere lo slancio e salirvi sopra, quando Giuseppe Romiti balzò fuori del suo nascondiglio.
      Rizzarsi, afferrare il disgraziato ladro per le gambe, tirarlo a terra e montargli colle ginocchia sul petto, fu un affare di pochi secondi.
      - Pietà, padron Beppe, pietà di me e della mia povera mamma - mormorava supplicando l’infelice.
      Il Romiti non udiva, o almeno non rispondeva: stette un momento in forse, pensando qual morte dovesse fagli fare. Una truce idea gli balenò alla mente: lo denudò, quindi legatogli i polsi e i piedi, salì lesto, come uno scoiattolo, sopra l’albero, passò il capo della corda attraverso due grossi rami, le cui cime colla forza poderosa delle sue braccia riuscì a riunire: quindi sciolto il nodo che gli avvinceva le gambe, legò i due piedi ognuno ad uno dei capi dei rami. Questi abbandonati a se stessi si staccarono e il corpo dell’infelice fu spaccato come quello di un agnello, appeso ai ganci da un macellaro e tagliato a mezzo.


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Mastro Titta il boia di Roma
Memorie di un carnefice scritte da lui stesso
di Anonimo
pagine 421

   





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