Alla sera, verso la mezzanotte, ritornava a casa, quando fu assalito da Francesco, che risaputo il suo ritorno, si era posto in agguato vicino al portone.
Non appena lo vide gli si slanciò sopra e gli diede una pugnalata alla gola, togliendogli la possibilità di parlare, poi una seconda al cuore che lo estinse!
Enrico era caduto al suolo fino dal primo colpo e Francesco si era rovesciato sopra di lui.
Quando si rialzò una nube di sangue gli aveva offuscata la ragione, stette come stupido, senza neppur pensare ad allontanarsi dal teatro del delitto. Se lo avesse fatto gli sarebbe stato agevolissimo di sottrarsi alle conseguenze del medesimo. Ma egli era quasi inconscio di sé. Quando i birri lo arrestarono, come avvertimmo, a pochi passi dal palazzo sotto il portone del quale aveva pugnalato Enrico, era già scorsa una buona mezz’ora.
XXXIV.
Ultime parole di un condannato.
Quando il giudice ebbe mostrato a Francesco Perelli il ritratto di Virginia e questi lo aveva riconosciuto, il compito dell’istruzione del processo divenne facilissimo. L’accusato narrò per filo e per segno la storia degli amori di sua sorella coll’assassinato, quale l’aveva risaputa dal vicinato. Virginia venne chiamata in testimonianza. Il suo incontro col fratello fu straziante.
Ella completò le deposizioni di Francesco, senza cercare di aggravarne la posizione, né di offendere la memoria dell’ucciso suo amante, del quale vantò l’affezione e la nobiltà del trattamento fattole, in espiazione della seduzione.
Francesco sbuffava d’ira, udendola parlare in favore della vittima e diede in escandescenze feroci, facendola segno di contumelie e vituperi ed imprecando alla sorte che non gli permetteva di uccidere pure lei, come il suo drudo.
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