Aveva ammazzato barbaramente tante persone, uomini e donne, vecchi e giovani ed aveva una paura spaventevole della morte. Implorava grazia per tutti i Santi del Cielo, e urlava che il Santo Padre rappresentante di un Dio di bontà e di misericordia doveva perdonargli. Lo mandassero pure in galera, lo chiudessero nel più tetro carcere, ma gli lasciassero la vita.
Si dovette legarlo per forza e imbavagliarlo affinché s’azzittasse.
Quando giungemmo sulla piazza del Popolo, ch’era gremita d’una folla impaziente di assistere allo spettacolo di uno squartamento, si sprigionò da tutti i petti un sospiro di soddisfazione.
- Eccolo! Eccolo!
E siccome era già giunta la notizia delle resistenza che aveva fatto si aggiungeva:
- Ora è in mano di Mastro Titta, non c’è più pericolo che scappi: dalle sue mani non si sfugge.
Avvicinandomi al palco udii ancora distintamente parecchie grida di: viva Mastro Titta; e quando l’ebbi lanciato nel vuoto, col capestro ben annodato intorno al collo, scoppiarono anco degli applausi. Sicuro, mi battevano le mani, salvo a mettermi a pezzi, se fossi disgraziatamente caduto in loro potere in un momento buono. Per fortuna conoscevo bene gli umori della folla e non mi sono mai lasciato lusingare dalle cortesie, come non mi sono mai intimorito per le minaccie.
Ma non era stata agevole l’impiccagione di quell’indiavolato.
Non appena toltogli il bavaglio, ricominciò ad urlare, a chiedere grazia e ad invocare le celesti legioni perché discendessero a liberarlo. Non era svenuto come tanti altri, possedeva ancora tutte le sue forze; ma era mestieri trascinarlo e portarlo su a braccia mentre si dibatteva.
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