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      La Cencia dopo pochi mesi di matrimonio era stanca ed annoiata della solitudine in cui scorrevano le sue giornate e parte delle sue notti. Non essendo del paese, non aveva amiche, ma semplici conoscenze; non aveva parenti; spesso non sapeva come ammazzare il tempo, perché poco esperta nei lavori muliebri.
      E intanto incominciavano a farsele intorno i giovani più scapati di Collevecchio. Quando la vedevano sul portoncino di casa le ronzavano attorno e cercavano di appiccar discorso con lei. Cencia rispondeva brevemente, perché temeva d’essere sorpresa da Gioacchino, ma incominciava a pregustare le delizie del frutto proibito..
      Tra i molti che la corteggiavano si trovò uno, Menico Baldassini, che più degli altri le andava a versi. I colloqui sul portoncino diventarono più frequenti e più lunghi, finché un bel mattino, data un’occhiata intorno alla strada deserta ed assicuratisi che nessuno li vedeva, i due entrarono in casa.
      Da quel dì, Menico tornava tutti i giorni dalla Cencia e vi rimaneva lunghe ore. La sua relazione si faceva sempre più intima; esordita come svago, era diventata una passione che assorbiva tutte le loro facoltà. Non vivevano che per amarsi e per godere.
      E intanto Gioacchino lavorava, inaffiando di sudore le glebe ed irrorandone i teneri germogli.
      Menico non entrava più dalla porta di strada, bensì da quella dell’orto, che immetteva nella stanza da letto nella quale entrava scavalcando una siepe. Ed erano abbracci, e carezze senza numero e senza fine.
      Cencia divideva con lui il suo asciolvere, stendendo la bianca tovaglia sopra un tavolino della camera nuziale, proprio accanto al talamo contaminato.


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Mastro Titta il boia di Roma
Memorie di un carnefice scritte da lui stesso
di Anonimo
pagine 421

   





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