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      Mangiavano nello stesso piatto, bevevano nello stesso bicchiere, mischiando bocconi, sorsi e baci, tuffandosi in una ridda di voluttà perenne.
      Gioacchino naturalmente nulla sapeva e nulla sospettava. La Cencia preferiva l’amante, ma non cessava di prodigarsi al marito come la consigliava la prudenza e forse la spingeva la sensualità.
      Verso il meriggio di una tepida ed aulente giornata de’ primi di maggio, Gioacchino inebbriato dagli olezzi agresti, dall’acuto profumo dei fieni mietuti, provando una immensa sete d’amore si diresse a casa, per abbracciare la sua Cencia. Giunto presso la porta della stanza da letto, verso l’orto, sentì un sommesso cicalio di voci umane e si fermò:
      - M’ami? chiedeva Cencia a Menico.
      - Più della vita. E tu?
      - T’adoro, angiolo mio. Se tu non fossi, che vita orrenda sarebbe la mia!
      - Gioacchino?
      - Non me ne parlare, vorrei essere sempre tua, tutta tua, solamente tua.
      E le parole dei due amanti morirono nello scambio di un bacio.
      Il povero tradito fece un passo, si accostò alla porta e vide la sua donna seduta sulle ginocchia di Menico, in completo abbandono, col guarnello rimboccato sulle ginocchia, il seno prorompente dal busto, cinta la vita da un suo braccio, e con una mano ne’ di lui capelli.
      Una nube di sangue gli velò gli occhi, ma ebbe la forza di fuggire.
      Errò pei campi tutto il giorno come un pazzo; soltanto la frescura della sera parve ridargli un po’ di calma.
      Un furor freddo sottentrò alle sue furie: rincasò tardi e trovò la moglie già coricata.
      Aveva concepito l’idea di una terribile vendetta e s’accinse a compierla.


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Mastro Titta il boia di Roma
Memorie di un carnefice scritte da lui stesso
di Anonimo
pagine 421

   





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