- E quando pure se ne fosse andata, a che gioverebbe?
- A non aver seccature.
- Non basta, non basta! Io ti voglio, mio, tutto mio.
- Non lo sono forse?
- Voglio che tutti lo sappiano.
- Pochi l’ignorano ormai.
- Sanno che sei l’amante della padrona e forse ti disprezzano…
- Che me ne importa, se io sono felice, beato del tuo amore?
- Se non importa a te, importa a me.
- Ebbene?
- Devi essere mio marito.
- Sai che è impossibile.
- Impossibile? Sciocco.
Per quella notte la contessa non disse di più. Temeva di alienarsi l’animo di Saverio. Bisognava lasciargli il tempo di abituarsi all’idea di sbarazzarsi per sempre della moglie, di famigliarizzarsi, per così dire, col delitto, ch’ella gli suggeriva.
XLIV.
L’assassinio.
La sinistra idea era ormai penetrata nella testa di Saverio e gli mordeva il cervello. Si provava a discacciarla, ma essa tornava insistente, provocante, inesorabile.
Per parecchi giorni si provò a stordirsi colla crapula. Ma, in mezzo all’orgia, la figura della sventurata Giacinta gli si levava innanzi come uno spettro minaccioso. Ed egli sentiva il bisogno, sentiva una voglia irrefrenabile di sbarazzarsene.
Si trovava in preda ad una specie d’ossessione del delitto.
La contessa comprendeva la battaglia che si combatteva nell’animo del cocchiere e lasciava ch’essa avesse il suo completo svolgimento, senza una parola di incitamento.
Solo continuava ad inebbriarlo di amore, estenuando quasi la sua fortissima fibra.
Ma la resistenza durava troppo. Saverio, perfettamente deliberato ad uccidere la moglie, desideroso di finirla una buona volta, non sapeva decidersi a farlo, e rimetteva il delitto da un giorno all’altro, dalla sera alla mattina e viceversa.
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Saverio Saverio Giacinta Saverio
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