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      Talvolta era don Asdrubale che gli affidava qualche difficile missione. E in tal caso soleva sempre scegliere il post prandium per parlargliene.
      - Agostino, dopo il caffè, portami una bottiglia di quel Genzano vecchio di dieci anni, che mi mandò monsignor Calotta.
      - Lo servo subito.
      - Bravo! Reca un bicchiere anco per te.
      - Troppo onore, don Asdrubale.
      - Sei un bravo conoscitore. Bevendo in due si gusta di più.
      - Come le piace.
      L’astuto cameriere, comprendeva a volo di che si trattava e nello scendere in cantina si stropicciava le mani, pensando ai vantaggi che avrebbe tratto dall’affare.
      Agostino portava sopra una guantiera d’argento, finamente cesellata, due calici di cristallo di Venezia e una bottiglia, coperta di polvere e di ragnatele che ne attestavano la vetustà. Stappava questa con tutte le cautele, affinché il vino non avesse ad intorbidirsi, se per avventura aveva fatto un po’ di deposito, e dopo averne versato due dita nel proprio bicchiere colmava quello del prete, il quale assisteva con compiacenza a quei preparativi e dilatando le nari, pregustava col profumo il nettare. Poi diceva:
      - Riempi anche il tuo.
      Agostino ubbidiva.
      Dopo averne centellinato un mezzo calice, don Asdrubale chiedeva al fedel cameriere, che aveva pur bevuta la sua parte parsimoniosamente:
      - Che te ne pare?
      - Divino.
      - Oh! oh! divino poi.
      - Perdoni, volevo dire squisito.
      - Furbacchiotto. Ti perdono perché sei tanto intelligente.
      - Bontà sua.
      - Dimmi dunque, che nuove abbiamo?
      - Nessuna monsignore.
      - Ma che monsignore!


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Mastro Titta il boia di Roma
Memorie di un carnefice scritte da lui stesso
di Anonimo
pagine 421

   





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