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      La vestiva, la svestiva, le acconciava i capelli, l’adornava con eleganti cuffiette da mattina, che le provvedeva egli stesso.
      La povera malata ne era rapita; dimenticava tutto quanto le aveva fatto soffrire e lo attribuiva all’eccesso del suo amore: si sentiva presa ogni giorno più di lui; solo per lui, si rammaricava che la vita le venisse meno; avrebbe voluto guarire per lui, per pascersi delle sue ebbrezze, per farlo felice com’egli desiderava.
      Si avvicinava l’autunno e già sull’epidermide di Romilda, resa giallastra, squamosa, arsiccia dalla febbre, correvano i primi brividi del freddo invernale. Uscendo, d’averla visitata, il medico aveva detto piano a Raffaele:
      - Un mese ancora e non più.
      - Un mese e non più! - ripeté colle labbra smunte e tremide l’ammalata, che aveva udito, poiché uno dei fenomeni della tisi è appunto lo straordinario acuimento dell’udito e dell’olfatto, e si contorceva le mani, in una muta disperazione.
      - Ho sete! - mormorò poi, sentendo Raffaele che ritornava nella camera.
      - Ti servo subito- rispose sollecito il pietoso infermiere e si diede a prepararle una limonata.
      LIV.
      L’avvelenamento.
      Era appoggiato al tavolo dietro le spalle di Romilda; ma questa rivedeva le sue sembianze, riflesse dallo specchio appeso alla parete opposta della camera, nel quale si compiaceva di guardarlo, con intensità d’affetto indescrivibile.
      D’un tratto le sue guancie si colorirono di viva fiamma e i suoi occhi lampeggiarono.
      Aveva veduto il marito versare nel bicchiere il contenuto di una piccola cartolina, che aveva tratta dalla tasca della sottoveste, non senza turbamento e guardandosi attorno sospettoso.


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Mastro Titta il boia di Roma
Memorie di un carnefice scritte da lui stesso
di Anonimo
pagine 421

   





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