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      Raffaele le si fece innanzi e le porse la limonea. Romilda lo guardò fissamente negli occhi. Egli non seppe dissimulare un fremito di terrore; ma vedendola tracannare tutta quanta la bibita si rinfrancò.
      - Mi ami, Raffaele? gli chiese poi con voce affievolita, in fondo alla quale c’era una sottilissima punta d’ironia.
      - Più della vita, angiolo mio - rispose con trasporto il giovane, afferrandole le mani e coprendole di baci.
      - E mi hai sempre amata così?
      - Così e così t’amerò.
      - E quando non sarò più?
      - Perché ti lasci cogliere da queste idee nere?
      - Non sono idee nere, è l’intuito della verità! Un mese ancora e non più! - ripeté tristamente Romilda quasi favellasse a se stessa.
      Raffaele si fece pallido come un cencio lavato. Aveva ella udito? O era realmente un presagio dell’animo suo?
      - Che dici mai! - esclamò - e cintole la testolina colle braccia l’attirò a sé, le baciò le ciocche d’oro dei finissimi capelli, che uscivano dalla leggiadra cuffietta e davano alla sua testa un non so che di soave e d’infantile.
      - Tu potresti abbreviare le mie sofferenze - gli mormorò Romilda all’orecchio. Raffaele sentì un brivido corrergli per le vene e per l’ossa. Ma pur pensò che era un effetto della paura, quello del senso arcano che egli attribuiva alle parole della malata.
      - Lo farei mille volte se mi fosse dato. Sacrificherei dieci anni della mia vita, per alleviare, fosse per un giorno solo, i tuoi dolori.
      - Lo credo! Lo credo - rispose la morente con voce secca, facendosi forza per allontanarlo da sé...


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Mastro Titta il boia di Roma
Memorie di un carnefice scritte da lui stesso
di Anonimo
pagine 421

   





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