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      Il giorno susseguente la scena si ripeté in termini quasi identici. Se non che nella furia di versare la venefica cartolina nella limonata, Raffaele inavvertitamente ne lasciò cader un’altra per terra. Romilda se ne avvide e non appena l’ebbe mandato fuori di camera, col pretesto che voleva riposarsi, con uno sforzo supremo di volontà riuscì ad alzarsi e barcollando attaccandosi ai mobili, raccolse la cartolina misteriosa e la nascose in seno.
      Il medico che aveva accordato all’inferma un altro mese di vita, non aveva calcolato sull’efficace sussidio che il suo male riceveva dalla polvere amministratale dall’amoroso marito.
      Dopo due settimane, una mattina triste e piovosa, cupa, Romilda, dopo aver ricevuto gli estremi conforti religiosi, circondata dal marito, dai parenti, dal medico, si spense, ma mentre esalava l’ultimo spiro, fece atto di frugarsi in seno e ne uscì un piccolo piego sul quale era scritto a matita: «Al mio notaio: da leggersi subito dopo la mia morte.» Si credette fosse un codicillo alle sue disposizioni testamentarie e il notaro venne subito chiamato, inviandogli il piego.
      Raffaele era ancora al letto della morta, immerso nella più tragica disperazione e dichiarava agli astanti di volerla seguire nella tomba, quando comparve il notaio, accompagnato da un incognito personaggio.
      Egli entrò serio ed accigliato e additando il vedovo all’incognito, disse con voce solenne:
      - Ecco l’avvelenatore. Impossessatevene. La giustizia avrà il pieno suo corso.
      L’incognito s’avanzò, fra la sorpresa e l’esterefazione universale e afferrò per un braccio Raffaele, più pallido della sua vittima che giaceva sul letto, dicendogli:


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Mastro Titta il boia di Roma
Memorie di un carnefice scritte da lui stesso
di Anonimo
pagine 421

   





Raffaele Romilda Raffaele Romilda