L’istruzione del processo, ricostituì il terribile dramma e a nulla valsero le ostinate negazioni dell’imputato, il quale dovette alla perfine arrendersi e confessare i particolari del delitto.
Giovanni Binzaglia cercò di attenuare la propria responsabilità, descrivendo l’amore ispiratogli dalla padroncina, la gelosia suscitatagli dalla progettata fuga col maestro. Disse che era entrato nella camera d’Elsa per dimandarla, che la vista della fanciulla semisvestita gli aveva tolta la ragione e che era stato costretto ad ucciderla per occultare il misfatto commesso in un momento di delirio erotico.
La sua difesa fu molto eloquente; si vedeva che gli premeva di salvare la testa. Ma non riuscì menomamente a commuovere i giudici, i quali lo condannarono alla decapitazione.
All’annunzio della sentenza diede in ismania feroce, disse di essere vittima della influenza esercitata dai genitori della vittima, respinse ogni conforto e il giorno dell’esecuzione bisognò portarlo a viva forza sul palco.
Per buona sorte la ghigliottina funzionò colla massima regolarità e la sua testa cadde con rapidità fulminea nel paniere, destinato a raccoglierla.
LXI.
Un gruppo di esecuzioni.
Il 19 luglio 1825, decapitai in Ancona Casimiro Rainoni, il quale in un impeto di bestiale furore aveva ucciso con una pedata, nelle parti vitali, un suo garzone. E dopo quattro mesi di riposo decapitai al Popolo Leonida Montanari e Angiolo Targhini, due cospiratori contro il governo di Sua Santità, appartenenti alla setta dei Carbonari, i quali avevano gravemente ferito un loro compagno, tale Spontini, sospettando che li avesse traditi e denunziati all’autorità.
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