Pagina (226/421)

   

pagina


Pagina_Precedente  Pagina_Successiva  Indice  Copertina 

     
      LXIII.
      Una vendetta.
      Il famiglio e il macellaro s’erano accantucciati innanzi ad un tavolino e andavano vuotando un boccale di frascatano, che avrebbe dovuto scioglier loro la lingua. Ma né l’uno né l’altro osavano entrare nell’argomento: questi desiderava e nel tempo stesso temeva di conoscerne la verità: quegli aveva paura che Beppe montasse un’altra volta in furia.
      - Siamo qui da un quarto d’ora, disse finalmente il Macchia con voce sommessa e appena intelligibile, e ancora non abbiamo abbordato l’affare. Vi piacerebbe spiegarmi...
      - Di gran cuore, se promettete d’essere uomo e di non abbandonarvi agli impeti del vostro carattere.
      - Sta tranquillo, amico. Ormai sono preparato a tutto. Mi rendi un servizio e non sono uomo di mancar di riconoscenza. Mia moglie dunque...
      - Vi tradisce.
      - Ne sei certo, perché bada, non vorrei...
      - Ne sono certo, come d’aver ricevuto il santo battesimo. L’ho veduta coi miei occhi.
      - Svergognata! Dove!
      - In scuderia. Nel camerino del cocchiere.
      - Non è dunque il principe?
      - Ma che principe! È innamorata morta del cocchiere.
      - Baldracca!
      - Ogni sera all’ora della tavola della servitù, abbandona il bambino nella sua culla, certa che nessuno l’andrà a cercare, scende al buio, giunge nella scuderia, dove l’amante l’aspetta.
      - E vi si trattiene?
      - Mezz’ora o tre quarti al più.
      - Come lo sapesti?
      - Il cocchiere mi licenziò per quell’ora: io risposi che ci avevo qualche affare a spicciare ed egli mi disse: «Se ti vedo in scuderia a quell’ora ti mando all’inferno.» Io non me lo feci ripetere.


Pagina_Precedente  Pagina_Successiva  Indice  Copertina 

   

Mastro Titta il boia di Roma
Memorie di un carnefice scritte da lui stesso
di Anonimo
pagine 421

   





Beppe Macchia